«Io penso che dopo il passaggio di un amore infelice, o dopo un colpo da levare il fiato,
uno dovrebbe semplicemente alzarsi ed essere fiero delle sue cicatrici.
La ferita diventa una medaglia al coraggio, il nostro modo di gridare al mondo che abbiamo imparato a resistere.»
Gabriel è un ragazzo innamorato delle parole, soprattutto di quelle che è impossibile tradurre in altre lingue – come la giapponese Wabi sabi, che esprime l’autenticità dell’imperfezione, o come iktsuarpok, con cui gli Inuit dell’Artico intendono l’irrequietezza nel controllare se qualcuno sta arrivando oltre l’orizzonte.
Confuso e smarrito, viene accolto nella casa affidataria della signora Michiko in un rione storico di Roma.
Si trova così ad abitare sotto lo stesso tetto con ragazze e ragazzi segnati da storie irreparabili, come il piccolo Leo, come Chiara, che conosce le stelle ma non l’amore, o Greta, sempre concentrata a scrivere messaggi al cellulare, come il minaccioso Scar e Amina, con la sua indicibile esperienza di migrazione.
Fuori c’è il mondo che conoscono, caotico, ingiusto, a tratti violento, ma nella casa della signora giapponese sono al riparo.
Finché un giorno quell’armonia si spezza.
È l’inizio di una ricerca per le strade di Roma e dentro sé stessi, dove ciascuno mette a frutto il proprio intuito, le proprie qualità – e porta allo scoperto le proprie ferite.
Un romanzo d’esordio emozionante, ricco di curiosità e sapere, da cui imparare con grazia e gentilezza.