Esiliata dal suo Paese, incapace di appartenere al mondo, Marina Cvetaeva trova nella purezza della parola una connessione diretta con l’essenza delle «cose»,
con lo spirito più profondo dell’esistenza. I suoi versi sono il carburante che alimenta l’incendio perenne che le consente di vivere
nell’unico Paese per lei possibile: quello dell’anima! Poesia, amore e vita sono per lei sullo stesso piano e non hanno confini.
Con addosso il suo unico vestito marrone, Marina Cvetaeva va incontro all’altro (uomo o donna che sia) come fosse nuda e chiede un amore smisurato, possibilmente disincarnato,
pretende di essere riconosciuta nella sua straordinaria unicità, esige l’incanto.
E l’incanto arriva sotto forma di un triangolo amoroso costruito sull’assenza dei corpi che attraverso un epistolario memorabile la lega per sempre al poeta moscovita Boris Pasternak e a quello boemo Rainer Maria Rilke.
Tutto il resto è delusione, materiale poetico per esprimere la condanna di chi non appartiene al presente,
e in ogni persona sta stretto come in ogni sentimento. Affamata di vita, Marina Cvetaeva non è fatta per la vita,
e a un certo punto si arrende andando a occupare il gradino più alto nell’olimpo di una generazione che ha distrutto tutti i suoi poeti.